Identità di genere e lavoro di cura
Quando mi è stato fatto l’invito di partecipare a questo evento formativo mi sono chiesta quale poteva essere il mio contributo su un argomento così ricco di sfaccettature, di cui mi sono sempre occupata nella pratica quotidiana della mia professione, ma poco nell’aspetto teorico.
Così ho cominciato a confrontarmi con gli spunti emersi dalla storia di questo evento, con le immagini e le aspettative che ho potuto cogliere parlando con alcune di voi che hanno contribuito alla sua realizzazione, e tutto questo mi portava ad aprire una miriade di capitoli interessanti. Ci sono infatti molti piani su cui si può posare lo sguardo che riguarda l’identità di genere e il lavoro di cura:
- l’organizzazione dei servizi, il corpo e la sessualità, la possibilità di sviluppare maggiore consapevolezza dell’essere donna e uomo; l’importanza di essere di parte senza sconfinare in un discorso ideologico. Le opportunità e i nodi critici dell’essere donna curante; la relazione tra donna che cura e donna che richiede la cura.
Insomma gli spunti sono molti, e trattandosi di un intervento con un tempo limitato e non di un’esperienza seminariale, ho ricominciato da capo, cercando di posizionarmi su quella che è la mia modalità di approcciarmi nel lavoro di cura cercando di mettere a fuoco e di tradurre in parole, i tracciati che percorro con le donne che si rivolgono a me perchè attraversano momenti transitori o duraturi di disagio sul piano psicologico ed esistenziale.
L’importanza di stare su 2 piedi
Innanzitutto è importante verificare se siamo ben appoggiate sui 2 piedi. Nella maggior parte delle situazioni in cui viviamo un disagio, stiamo su un piede solo ..e magari in punta di piedi, così basta pochissimo x farci vacillare. E allora se siamo spostate troppo in avanti o se arretriamo troppo, perdiamo il nostro baricentro e tutto diventa più difficile xchè usciamo dal punto che può darci equilibrio e identità.
Ecco!..cercare il proprio baricentro e accorgerci di quanto siamo sbilanciate è un buon punto di partenza che fa riferimento all’identità:..”..ma io cosa vorrei?..in che modo potrei sentirmi più a mio agio in questa situazione?..dove sono i miei punti di forza? Quale potrebbe essere per me un buon risultato in questa situazione?
Certo cercare di comprendere quanto siamo distanti dal nostro baricentro non significa ancora averlo trovato. Anzi potremmo dire che questo è in fondo l’obbiettivo del lavoro di cura. Tuttavia è importante porsi la domanda che può stimolare un lavoro sull’identità, cercando di comprendere dove, come e quando ci siamo sentite più stabili nel nostro baricentro, cercando di comprendere dove stava il nostro punto di forza,e a volte già porre la domanda apre spiragli di possibilità o di ricordi percorribili, lasciando intravvedere il chiarore di una via d’uscita dalla disperazione, dalla depressione o semplicemente dalla confusione. La ricerca è lunga e faticosa e comporta cambiamenti, adattamenti,..pause,..disillusioni,..aggiustamenti, ma l’obbiettivo resta quello!
Riassumendo , un punto di riferimento importante nella questione “Identità di genere e lavoro di cura”riguarda la ricerca del proprio baricentro, cominciando dalla possibilità di percepire, riconoscere e fidarsi di ciò che per noi è importante.
Se il primo passo per affrontare un compito, è cercare di trovare il proprio baricentro, e quindi il punto di appoggio in noi stesse,.. la questione che si pone immediatamente, riguarda la possibilità di potersi fidare di ciò che riteniamo ci possa e ci debba riguardare, perchè per poterci fidare, dobbiamo legittimarci,..cioè riconoscerci il diritto di emanare leggi per noi stesse..e qui naturalmente la questione si complica un po’.
Trovare il baricentro allora, riguarda la nostra identità personale e in primis, la nostra identità di genere che fa da contenitore fondamentale dell’identità nelle sue caleidoscopiche sfaccettature..
Tener conto della differenza di genere significa partire dalla consapevolezza della propria unicità archetipica, primordiale, pur nella molteplicità delle differenze individuali.
Ne l’I Ching un antico e famoso testo oracolare, giunto a noi anche grazie alla famosa introduzione di Carl Gustav Jung ,padre della terapia analitica, il secondo esagramma denominato “Il Ricettivo” rappresenta la qualità archetipica yin del femminile, mentre Il Creativo, è la qualità archetipica yang del maschile.
“Il Ricettivo rappresenta la natura della terra, mentre Il Creativo la natura del cielo. Il Ricettivo corrisponde alla forza primordiale in ombra, tenera, ricettiva dello yin. La qualità è la dedizione. E’ la natura di fronte allo Spirito, la terra di fronte al cielo. Nella sua ricchezza sorregge tutte le cose. Nella sua ampiezza abbraccia tutto e per mezzo suo ogni singolo essere perviene alla riuscita. Mentre Il Creativo protegge le cose, cioè le copre dall’alto, Il Ricettivo le sorregge, fungendo da sostegno stabile e durevole. Ogni essere umano coniuga in sé questa dualità, nel coesistere del sensibile e dello spirituale, ma la componente di genere riguarda una modalità archetipica che agisce in maniera molto profonda e potremmo dire prioritaria.
Se assumiamo questo presupposto vediamo come Il pensiero femminile tenda come sua priorità a privilegiare la contemplazione di un insieme, e ad assorbire la conoscenza più che a penetrarla. Questa modalità di pensiero tende a esaminare i singoli aspetti di un contesto cercando le relazioni più che operare analisi separate. Quindi tende a raccogliere informazioni per metterle in relazione, sottolineando connessioni e differenze. Tende a creare analogie piuttosto che catalogare, come è proprio del pensiero maschile. Questo legame con il potenziale espresso dal pensiero analogico riguarda le relazioni di dominanza proprie dell’emisfero destro e delle funzioni ad esso connesse. Tale specificità emisferica può essere un interessante punto di partenza x comprendere alcuni presupposti legati all’identità di genere, ma naturalmente non và confusa con l’idea che le donne vivono nel sentimento e gli uomini nella ragione, quanto piuttosto che l’uso che le donne fanno della ragione e cioè della competenze logiche legate alle funzioni specifiche dell’emisfero sinistro, tiene conto di questo presupposto di partenza.
L’indagine sulla differenza di genere nella struttura psichica, riguarda in particolar modo la nostra generazione di donne terapeute.
Un bel lavoro della Valcarenghi, analista junghiana, analizza per esempio il ruolo dell’aggressività nella differenza di genere e parla di deficit aggressivo e di auto delegittimazione delle donne, che non consente autonomia e consegna alla dipendenza e alla frustrazione. Così la delegittimazione delle componenti desideranti, priva di un diritto e si esprime nel continuo adattamento.
Se si reprime il desiderio, si blocca l’aggressività e si entra in un atteggiamento sacrificale. Ci troviamo di fronte all’origine della tendenza vittimistica.
A questo punto la rinuncia all’aggressività, consegna alla dipendenza emozionale.
Tutto questo avviene xchè culturalmente si confonde ancora il comportamento femminile con la repressione dell’istinto e il vivere sotto tutela, modalità che tende a evidenziare la vulnerabilità del femminile a vantaggio di una facile supremazia del maschile.
La tendenza all’adattamento chiarisce molto bene la perversione di un meccanismo che all’origine nasce come risorsa. La capacità di adattamento infatti è sicuramente una qualità elettiva alla base delle leggi evolutive, ma spesso traduce una tendenza al “non essere”. Questa abitudine al “non essere”, genera in realtà un “non sapere chi essere”, in che modo e in quali forme.
La conseguenza più visibile di questa mancanza di abitudine a “cercare di essere in modo autonomo e originale”, secondo la propria identità e in primis l’identità di genere, porta a procedere in molte situazioni, per imitazione sui modelli maschili escludendo la ricerca di una via di genere femminile.
Spezzare l’abitudine al non essere significa Integrare modi di pensare e di sentire accoglienti, comprendere le differenze, mantenere l’attenzione alla complessità, la sensibilità al pericolo e al dolore, sperimentare una maggiore autonomia dalla gerarchia e dalla competizione.
Potremo riassumere quanto espresso finora dicendo che l’Identità di genere nella struttura psichica non riguarda tanto una diversa “competenza” per territorio tra uomini e donne, cioè pensiero e Spirito da un lato contrapposto a sentimento e pulsioni dall’altro, quanto un modo diverso di esprimersi e di vivere sia il pensiero che il sentimento.
Maschile e femminile quindi, non rappresentano rispettivamente il pensare e il sentire come si pensa comunemente, ma piuttosto 2 modi diversi di pensare e sentire, in altre parole due modi diversi e complementari di prendere contatto con l’esperienza.
Qualche sera fa mi sono ritrovata con degli amici con cui ho avuto la fortuna di condividere l’esperienza di una traversata atlantica in barca a vela. Avevo trovato su un libro di mare, scritto da un uomo,la descrizione di una mattina in atlantico. La descrizione per me era così bella e evocativa che ho avuto il desiderio di condividerla. Alla fine della lettura l’amico a cui avevo chiesto un parere sul testo, mi risponde:..”bello,..ma questo non è il mio atlantico, è un atlantico per signore. Eppure avevamo vissuto la stessa esperienza”.
Tornando alle riflessioni da cui sono partita per descrivere i presupposti di un lavoro di cura orientato al genere, sintetizzerei alcuni punti che considero obbiettivi a cui tendere :
- stare appoggiate su 2 piedi, cioè allenarsi a ricercare una base di appoggio che permetta un equilibrio flessibile tra le proprie esigenze interiori e quelle esteriori.
- fidarsi delle proprie percezioni
- mettersi in ascolto avendo come riferimento i punti forti della propria identità personale e di genere.
- Poter osservare il mondo anziché sentirsi osservate dal mondo
Potremo definire questo obbiettivo come ricerca di una maggior fiducia in se stesse.
Ma dove inizia la perdita di fiducia nelle donne?
La fiducia sembra subire diversi attacchi che vanno dall’educazione di base, alle convinzioni culturali in cui si sviluppa la personalità femminile, alle esperienze abusanti.
La percezione di inadeguatezza che caratterizza in grande misura la storia delle donne sembra essere collegata a temi riguardanti il giudizio e la vergogna, spesso associati ad esperienze di abuso in età infantile, sotto le varie forme della mortificazione, della svalutazione, della violenza fisica e verbale o della molestia sessuale.
A questo dobbiamo associare una generale repressione degli istinti aggressivi in misura maggiore di quella effettuata nei confronti degli uomini.
Dobbiamo considerare inoltre il culto della gratuità, basata su obblighi e doveri di un’esistenza sociale femminile orientata secondo la tradizione, che porta a una generale difficoltà a chiedere per sé nella vita emozionale e in quella professionale.
Non và dimenticato poi che la svalutazione culturale delle componenti riguardanti il mondo del sentire, ha prodotto una sorta di occultamento ,da parte di molte donne, di queste istanze, vissute come espressione di debolezza e inadeguatezza.
Tornando alle questioni che possono minare un sano sviluppo della fiducia di base vorrei fare almeno un breve cenno al tema spinoso delle molestie e degli abusi in età infantile.
Da recenti studi emerge infatti che il 25/° della popolazione femminile cioè una donna su 4 ha subito abusi tra i 6 e gli 11 anni. L’equivalente maschile sembra essere 1 a 7.
Nella maggior parte dei casi queste esperienze non vengono comunicate alle figure genitoriali oppure la figura di riferimento, minimizza o non riconosce adeguatamente il problema .
Ciò che si sviluppa come prima conseguenza è una lesione nell’identità che potremo tradurre nel “ non posso fidarmi delle mie percezioni”,..quindi forse sono io sbagliata! Ciò ha ripercussioni enormi sul senso della vergogna, sull’autoboicottaggio fino all’autodistruzione, e la cosa drammatica è che questo non riguarda una parte ridotta della popolazione femminile, ma una percentuale che si rivela sempre più alta.
Esperienze successive come abbandoni affettivi, interruzioni di gravidanza e svalutazione dell’ambiente famigliare o scolastico, esperienze di sradicamento e di perdita di rete affettiva e sociale, contribuiscono a stratificare queste convinzioni e a renderle veri e propri ostacoli sulla via di una sana legittimazione di sé.
Ecco xchè stare appoggiate su 2 piedi significa imparare a fidarsi delle proprie percezioni e delle proprie competenze. A volte si tratta solo di riappropriarsi di una sana percezione di sé, sperimentata in altre fasi della vita, altre volte si tratta invece di ricreare le basi per poter cominciare a sperimentare una sana percezione di sé.
A questo punto possiamo cominciare a chiederci quali sono gli aspetti fondamentali che deve elaborare una terapeuta che lavora con le donne. Cito alcuni passaggi che ritengo particolarmente importanti:
- conoscere e apprezzare se stessa per poter accogliere e sostenere con amore e stima le altre donne.
- Essere cosciente delle proprie emozioni controtransferali, cioè delle proprie risposte emozionali attivate dai vissuti emersi nella relazione terapeutica con le donne.
- riconoscere e accettare le proprie debolezze
- rivalutarle come risorse
- integrare le proprie polarità.
Il tema dell’integrazione delle polarità come via.
A tu x tu con le emozioni
Il burn out
Su un piano generale possiamo dire che la sindrome da burn out, riguarda la risposta a uno stress prolungato che và oltre la questione del carico eccessivo di lavoro. Il termine burn out che letteralmente significa bruciatura da inefficacia, è sicuramente correlato a fattori che possono anche prescindere dalla gestione del lavoro quotidiano. Certamente la carenza di ore di sonno dovute alla turnazione, per esempio può essere un fattore scatenante della perdita di efficacia, così come la carenza di personale che costringe a un sovraccarico lavorativo o di responsabilità. Non dobbiamo dimenticare però che la maggior parte delle donne ancora oggi assolve a compiti di riproduzione del sistema famigliare in misura maggiore degli uomini, si tratti dei figli, dei partner, o delle figure anziane o malate del sistema famigliare. Questo tema riguardante la sfera privata si estende tuttavia anche a quella pubblica. Spesso a parità di ruoli, gli uomini scelgono compiti di passaggio o lavori di eccellenza, mentre la donna per tendenza o per necessità subita si mantiene radicata nel funzionamento, nel garantire, nell’esserci, in una sorta di passione, condanna o mania del tenere insieme e dell’essere a disposizione fino all’esaurimento. Darsi il diritto di considerare i propri limiti è un buon punto di partenza, così come il lasciare che anche altri facciano togliendo un po’ di quella vocazione all’indispensabilità, che per molte donne è ancora l’unico spazio “per poter essere”. Questo radicamento senza levità, può determinare una perdita di visione che assommandosi presumibilmente alla difficoltà di proiettarsi in una prospettiva più ampia, propria dei momenti di crisi personale, dei servizi, e della realtà sociale più complessiva, fa precipitare la motivazione e il desiderio , travolgendo tutto nell’opacità della fatica cronica e dell’apatia. In questo quadro complessivo è importante tener conto delle risposte emozionali a imput prolungati provenienti dalle donne in trattamento, che possono toccare da vicino le donne curanti. Temi come la violenza famigliare, l’abuso, la depressione, la follia, l’impotenza, la disillusione, la malattia,l’invecchiamento, la perdita di figure care, sono temi con i quali le donne curanti si confrontano ogni giorno e che in certe circostanze, possono entrare particolarmente in risonanza con i propri vissuti personali, che se non vengono ben compresi e separati dalla realtà professionale, possono determinare un eccesso di coinvolgimento, un’identificazione e in ultima analisi una destabilizzazione complessiva della personalità.
Oggi il lavoro di cura si pone sempre più come opportunità di apertura di visioni e prospettive che permettano l’uscita dalla fase di impotenza o dalla necessità del sintomo come soluzione compensatoria.
Vediamo ora alcune delle tipologie più frequenti legate all’identità di genere femminile che si incontrano nel lavoro di cura a prescindere dalla condizione psicopatologica:
- Le giovani donne, le difficoltà a trovare modelli compatibili con il loro sentire, il distacco dalla famiglia, la ricerca dell’identità sessuale, il corpo, le problematiche di relazione, i temi abbandonici, i disturbi alimentari come espressione dell’impossibilità di integrare bisogni e controllo.
- Le madri in difficoltà, il loro senso di inadeguatezza, il peso schiacciante della responsabilità, e la difficoltà di essere madri, compagne e donne.
- Le donne straniere, che accanto ai problemi più generali della migrazione, portano con sé il tema dello sradicamento dai propri riferimenti culturali di genere entrando nel conflitto tra aspirazione e timori del cambiamento, toccando questioni fondamentali e comuni a tutte le donne come la ricerca di equilibrio tra autonomia e dipendenza, la sessualità, la violenza, la perdita di rete famigliare e sociale.
- Le donne maltrattate spesso intrappolate nella loro stessa ambivalenza che le porta a subire e a giustificare il tiranno travestito da bambino infelice.
- Le donne vittime di violenza sessuale.
- Le donne in menopausa.
Per ognuna di queste situazione di genere potremmo valutare le dinamiche controtransferali, cioè le risposte emozionali della donna curante alle tematiche portate in terapia, nonché le aspettative delle donne che richiedono la cura. Potremmo inoltre valutare quali stati d’animo si attivano nel caso di un’eccessiva identificazione o di un’eccessiva distanza dalla donna e dalla situazione che porta in terapia.
Non potendo affrontare a fondo in questa sede le diverse tematiche prima descritte, mi limiterò ad alcune riflessioni sul tema della donna in menopausa. Il tema della menopausa infatti, a mio parere racchiude molte questioni legate all’identità di genere, alla difficoltà insita in questa ricerca, ma anche alla possibilità reale di creare veramente una nuova via per esprimere tale identità.
In questa fase della vita infatti spesso troviamo lo scenario più sontuoso anche se vissuto spesso con drammaticità, in cui può trovare spazio quel complesso di desideri, eccessi, trasgressioni, che guida verso un al di là, un altrove dove il pensiero razionale non arriva, ..ma arriva il corpo con i suoi segnali di fuoco..e dove si possono formare i presupposti per un nuovo sapere. E’ qui infatti che può avvenire il passaggio alchemico dalla Lilith , il femminile istintuale, alla Sophia, il femminile sapiente, che l’istintuale ha distillato. Non la menopausa che vuole vedere la donna finita, ma la menopausa come possibilità creativa al servizio della libertà di essere. Naturalmente per questa visione non ci sono ancora sentieri. Solo spunti, tentativi coraggiosi, aperture di percorsi spesso non autorizzati.
La costellazione di sintomi e disagi che può accompagnare l’ingresso in questa fase della vita fa sì che venga sovente medicalizzata sia per alleviare tali disagi che per scongiurare quella fuga nell’irrazionale che spesso aleggia come rischio intorno a questo periodo della vita.
Questa dimensione così bistrattata, spauracchio di ogni donna intorno ai 50 anni, associata a fenomeni incontrollabili che colpiscono la sfera fisica psichica e spirituale delle donne..ebbene proprio questo crogiolo di contraddizioni infiammate, può rappresentare un terreno fecondo di reale evoluzione.
A questo proposito è interessante riflettere sul fatto che ogni donna inizia il suo percorso di donna con la prima mestruazione, in un dato periodo storico, caratterizzato da un insieme di norme, modelli, aspirazioni, timori, ..e lo conclude generalmente in un periodo successivo mediamente di circa 30-35 anni. La sua storia di donna è stata fortemente condizionata dal suo inizio, perlomeno riguardo alla scala di valori e alle esperienze vissute. La vita successiva ha portato sicuramente delle variazioni, passando attraverso fasi come la scoperta della sessualità, la maternità, il rapporto di coppia, o la vita da single, ma in qualche modo tutti questi passaggi risentono dell’imprinting di partenza. Con il climaterio e l’inizio della menopausa le cose cambiano.
La forza del femminile-materno oblativo, che si dona all’esterno si rende libera e disponibile per altri obbiettivi creativi. Ma qui la cultura occidentale, non offre grandi visioni, oltre alla possibilità pur preziosa offerta dai nipoti e dalla ripresa dell’accudimento in scala ridotta e spesso neanche tanto ridotta. Così quella mestruazione che liberava il suo fiume di sangue coscienza nei canali aperti mese dopo mese a disperdere l’ombra oscura del femminile, rivela la sua intensità lavica. Ora l’anima del femminile libera i suoi grumi nodosi ..e ora i nodi chiedono di essere sciolti. Questa la possibilità. Sciogliere i grumi rappresi di un femminile che vuole recuperare ciò che è stato tralasciato, per anelito di unità ..per ricomposizione, .. adempimento..pena straripare nelle vampate fastidiose, le oscillazioni delle parti sospese.
Ciò che rimane indietro nella mia esperienza, è quasi sempre il femminile erotico,..quello fatto di desideri impediti,..l’intensità non vissuta. Tempeste ormonali?..certo. Tempeste di vita. Poiché la possibilità della riscoperta del desiderio non si esaurisce nella sessualità o nella passione ma può divenire possibilità di erotizzare la vita.
L’atteggiamento della donna curante, nei confronti della sessualità, la possibilità di poter affrontare questo tema in maniera serena e aperta è fondamentale per aiutare le donne, poiché nella nostra cultura la repressione e il giudizio riguardo a questi aspetti della vita hanno un ruolo fondamentale nello sviluppo del senso di inadeguatezza, vergogna, sfiducia, colpa e quindi nei comportamenti delegittimanti e autodistruttivi nelle più svariate forme che vanno dall’accettare la violenza a impedirsi il successo o l’amore.
Vediamo ora quali possono essere gli scenari che si presentano più comunemente nella relazione tra la donna che cura e la donna che richiede la cura.
La relazione madre figlia
L’incontro terapeutico tra donna che cura e donna che richiede la cura, porta con sé molti aspetti propri della relazione madre –figlia. Questo tema può evidenziarsi attraverso varie modalità, e nel doppio senso di marcia, cioè dalla terapeuta verso la donna in cura, o dalla donna verso la curante.
La capacità di accoglienza sul piano della relazione terapeutica, e di conseguenza la percezione di accudimento, ricoprono senza dubbio un ruolo importante nella relazione di cura. In alcune circostanze questo aspetto viene amplificato in senso costruttivo o distruttivo.
Facciamo alcuni esempi: la donna che richiede la cura può proiettare sulla figura della terapeuta (proiezione narcisistica) il desiderio di una madre onnipotente, che le permetta di restare figlia al riparo dal crescere. Questa situazione si presenta inizialmente molto gratificante per la terapeuta che viene esaltata nelle sue caratteristiche positive, salvo poi essere costretta in un ruolo da cui risulta molto difficile spostarsi. Se infatti vive un aspetto non risolto rispetto alla relazione con la propria madre, e se la dimensione terapeutica diviene spazio dove si mette in scena la possibilità di essere madri migliori , attraverso l’accoglienza totale, la totale comprensione e il sacrificio di sé, allora tenderà a rispondere alle aspettative della donna figlia.
Tale dinamica se riconosciuta, può favorire lo sviluppo di un’alleanza terapeutica e di un positivo processo di identificazione, ma può altresì attivare la tentazione di onnipotenza della terapeuta che resta intrappolata nel ruolo di donna armadio, cioè spazio sempre più capiente per contenere l’altra. Se consideriamo la possibilità di moltiplicare situazioni di questo tipo come è naturale nel lavoro di cura, avremo una donna terapeuta perennemente prosciugata e incapace di ristabilire spazi equilibrati per sé.
Un’altra possibilità per certi versi opposta, è quella di riprodurre nella relazione , il desiderio di compiacere la terapeuta madre. Anche qui avremo una crescita parziale data dal desiderio di raggiungere gli obbiettivi dati, ma diventa difficile per la donna sviluppare forme diversificate e autonome di crescita. Infatti quando la donna compiacente e adattabile entra in una fase di crescita, magari passando per scelte autonome e rifiutanti, la terapeuta può sentirsi delusa, amareggiata e tradita.
L’età anagrafica può favorire una dinamica figlia-madre per esempio nel caso di una giovane donna in relazione a una terapeuta più adulta. In questo caso la proiezione può riguardare sia la figlia reale o simbolica o la propria parte figlia in quella medesima fase di vita. In altri casi possiamo trovare l’operatrice che deve prendersi cura di una donna più anziana o con aspetti caratteriali simili o opposti a seconda dei casi a quelli della propria madre con le conseguenti dinamiche di identificazione eccessiva o eccessiva distanza.
Questa molteplicità di relazioni e possibili proiezioni permette la messa in scena di una costellazione di dinamiche che attraversa tutta la gamma dei sentimenti che vanno dall’accettazione al rifiuto.
Essere cosciente delle proprie relazioni personali e delle proprie risposte emozionali attivate nella relazione permette alla donna terapeuta che accetti questa possibilità, di sperimentare la forza di una formazione permanente che può rivelarsi un fattore di crescita per entrambe le donne coinvolte nella relazione terapeutica.
A queste magnifiche e profonde riflessioni sul “baricentro” o sulla relazione tra la donna che
cura e la donna che richiede la cura, posso rispondere solo in due modi, con due strofe di
una canzone.
Quello che la dott.ssa Lorenzi segnala sul baricentro, sullo “stare su due piedi” è
verissimo, sempre, per tutti: donne e uomini.
La difficoltà è come realizzarlo.
Allora mi vengono in aiuto le parole di una bellissima canzone (di cui riporto anche la
prima strofa) di Franco Battiato: “Cerco un centro di gravità permanente…”:
https://www.youtube.com/watch?v=vN-KwiaM8_s
La prima strofa evoca personaggi suggestivi, molto diversi tra loro, ma tutti con un proprio
baricentro o un centro di gravità permanente … se preferite.
La seconda strofa è quella che ci interessa nell’identità di genere.
Una vecchia bretone
Con un cappello e un ombrello di carta di riso e canna di bambù
Capitani coraggiosi
Furbi contrabbandieri macedoni
Gesuiti euclidei
Vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori
Della dinastia dei Ming
Cerco un centro di gravità permanente
Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
Avrei bisogno di
Cerco un centro di gravità permanente
Che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose sulla gente
Over and over again
Per le strade di Pechino erano giorni di maggio
Tra noi si scherzava a raccogliere ortiche
Non sopporto i cori russi
La musica finto rock la new wave italiana il free jazz punk inglese
Neanche la nera africana
…
La seconda strofa, originale, in inglese – e così la mia risposta – giunge dalla fine della
bellissima canzone di Battiato che pochi hanno la pazienza di ascoltare.
You are a woman in love
Baby I need your love
I want your love
Over and over again
Come in into my life
Baby, I want to give you my soul
Baby, I need your love
La fine della relazione della dott.ssa Lorenzi sulla “donna che cura” e sul “lavoro di cura”
esalta il ruolo della donna, grazie alla sensibilità e la dolcezza che solo una donna può
regalare.